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Commento al saggio "Il Sé come luogo d'incontro fra creatura e pleroma. Un confronto tra Jung e Bateson" di Patrizia Peresso

By admin | Maggio 26, 2008

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p>Grazie ad Andrée Bella che ci ha permesso di leggere questo saggio di Patrizia Peresso. Io ne avevo sentito parlare e lo avevo trovato citato perché alla fine della mia prima analisi junghiana avevo pensato a una seconda analisi (che sarebbe un po' come l'analisi didattica per i freudiani) ma c'erano problemi perché io già avevo una formazione sistemico-relazionale. Per la possibile ammissione alla seconda analisi mi avevano indicato che, tra le altre cose, avrei dovuto preparare un saggio sul pensiero di Jung. Fu così che mi venne l'idea di scrivere sul rapporto tra Bateson e Jung. Da un punto di vista storico ci sono altri rapporti di pensiero tra Jung e Bateson. Nel volume di Ellenberger La scoperta dell'inconscio si parla delle possibili origini junghiane dell'Anonima Alcolisti. Per farla breve, sembra che una persona che contribuì alla fondazione dell'AA fosse andato a farsi curare da Jung, dopo una ricaduta nell'abuso di alcol, tornato a Zurigo a chiedere aiuto, pare che si fosse sentito dire da Jung che non c'era niente da fare, che la dipendenza da alcol era resistente a qualsiasi trattamento psicoterapeutico. Quando il paziente deluso sta per andarsene, pare che Jung abbia detto che invero c'era solo una possibilità, benché rara: una conversione.
Di là la nascita della filosofia dei dodici passi dell'AA (chi non la sa la può trovare in internet). “La cibernetica del Self” (tradotto, a mio avviso non del tutto correttamente con “La cibernetica dell'Io”, personalmente ho sviluppato osservazioni sulla traduzione di Bateson in Figure della relazione e anche nel libro Sotto il velo della normalità, scritto con Pievani e Capararo) è un bellissimo saggio di Bateson intorno alla filosofia dell'AA e al tema del sacro.
Per tornare al saggio di Peresso, l'ho trovato molto interessante, anche se, in merito alla relazione tra creatura e pleroma Peresso sembra attenersi a una versione standard che, come abbiamo visto nel seminario 1, non ci soddisfa e ci lascia perplessi. Perché ci lascia perplessi? Perché risolve la questione sovrapponendo la creatura alla mappa e alla psiche, e sovrapponendo il pleroma, al territorio e alla materia. Senza residui. Come dire che il Cartesio che se n'è uscito dalla porta rientra dalla finestra. D'altro canto Bateson fa riferimento alla Ding an sich kantiana, ricordate che ne abbiamo parlato? E abbiamo anche visto che, man mano Kant riscrive e ripensa la Critica della Ragion Pura, man mano la Cosa in sé si dissolve, per lasciare il posto al fenomeno. Così Schopenhauer, che vuole recuperare la prima edizione della Critica della Ragion Pura, lo fa perché gli interessa la cosa in sé, il noumeno, che in lui diventa quel qualcosa che la rappresentazione non può rappresentarsi: il corpo. Cosi scrive Charles Andler nel suo saggio: Nietzsche sa vie et sa pensée (1958), al capitolo su Schopenhauer, nel primo volume intitolato “I precursori di Nietzsche”: “Ecco il fatto filosofico per eccellenza. C'è una serie di fenomeni che non percepiamo solo dal di fuori nello spazio e nel tempo in cui si concatenano, ma dal di dentro, e per la potenza vivente che li modifica e che è un volere”.
Il corpo, un fenomeno che ci lega in un interesse particolare.
Ora vediamo un'opera di Jung che Peresso non menziona, ma che io vi chiederei di procurarvi e di leggere. E' un'opera del 1952, lo stesso anno in cui Jung scrisse il saggio sulla sincronicità (citato da Bateson) che uscì insieme a un saggio del fisico Pauli, che, durante la sua psicoanalisi, sviluppò l'impressione che i suoi sogni avessero un'analogia con le sue teorie di fisica quantistica.
Ma l'opera che voglio citare si intitola Risposta a Giobbe. Qui Jung scrive una cosa strana, particolare: “Nello stato di pleroma o di bardo (termine quest'ultimo impiegato dai tibetani) regna un'interazione dei vari mondi, ma una volta avvenuta la creazione, vale a dire con il passaggio del mondo nella fase degli avvenimenti successivi e distinti nello spazio e nel tempo, questi avvenimenti incominciano a esercitare vicendevolmente degli attriti, a urtarsi”
Con la parola “bardo” Jung fa riferimento a un libro dei morti tibetano, il Bardo Thodol, dove si parla di un principio psichico del defunto prima di reincarnarsi in un nuovo organismo. Il bardo, che durerebbe 49 giorni, è un periodo in cui il defunto incontra diverse immagini che interrogano la sua chiarezza mentale.
Non diversamente da quanto raccontano le persone che sono entrate in coma, o che sono state tra la vita e la morte. Nel libro di Oliver Sacks che sto leggendo (Musicofilia) si riporta uno di questi resoconti, si tratta di un uomo colpito da un fulmine mentre parlava in un telefono pubblico:
Ricordo un lampo di luce uscire dall'apparecchio. Mi prese in pieno viso. La prima cosa che ricordo subito dopo è che stavo volando all'indietro. Poi… stavo volando in avanti. Stupefatto. Mi guardai intorno. Vidi il mio corpo per terra. Dissi a me stesso: “Cazzo sono morto”. Vidi della gente radunarsi convergendo intorno al mio corpo…Poi mi ritovai circondato da una luce bianco-azzurra…Una sensazione di enorme benessere e di pace.
Dunque qual è il punto? La mappa non è il territorio, però la mappa non è la creatura, né il territorio è il pleroma. C'è qualcosa di indistinto, c'è un piccolo oggetto (a?) un residuo di creatura nel pleroma, ciò che permette a Giobbe di mettere in luce il paradosso di Dio:

“In un essere umano che ci fa del male, scrive Jung, non possiamo aspettarci di trovare contemporaneamente un soccorritore. Ma Yahwèh (perché questa trascrizione? non sarebbe stato meglio Yahveh?) non è un essere umano: egli è ambedue in uno, persecutore e soccorritore, con ciascuno dei due aspetti reale quanto l'altro. Yahwèh non è diviso in due, egli è un'antinomia, una totale opposizione interna…”

Così l'autore del Salmo 89 (andatevelo a vedere perché è interessante) dopo aver cantato l'onnipotenza di Dio e l'alleanza che Dio aveva promesso di mai distruggere con il suo popolo, dopo una pausa (89,39 per i cristiani e 89,47 per gli ebrei), dice: “Ma tu lo hai respinto e ripudiato (il tuo popolo), ti sei adirato contro il tuo consacrato, hai rotto l'alleanza con il tuo servo, hai profanato nel fango la sua corona…” e così continua con una serie di accuse verso Dio che terminano con: “Fino a quando Signore continuerai a tenerti nascosto, arderà come fuoco la tua ira?” che nella traduzione inglese dall'ebraico suona “How long, O Lord, will You forever hide Your face, will Your fury blaze like fire?”. E cioè:

“Quanto tempo, o Signore! Nasconderai il tuo volto per sempre? La tua furia, brucerà come fuoco?”

Insomma una poesia, una protesta, uno sfogo.
Che dite se riprendiamo queste cose al prossimo incontro? Perché se da una parte l'autore del Salmo 89 assume questa posizione critica, dall'altra Giobbe si rende conto dell'inutilità, dell'impotenza di criticare solamente una potenza cieca che lo sovrasta e introduce un criterio morale di autoriflessività (questa mi pare l'opinione di Jung, ma anche Ernst Bloch aveva insinuato qualcosa di simile) che, rendendo l'uomo pienamente laico, gli fa recuperare la dimensione di cura e lo rende, almeno sul piano morale, migliore di questo Dio nascosto.

ciao

Pietro

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